Anche chi è solitamente muto come un pesce, a Carnevale si concede alle chiacchiere. Coriandoli e stelle filanti sono la scusa tirata in ballo per cedere al fritto.
Eppure mi tocca farmi paladina irremovibile delle chiacchiere al forno per questa ricetta perfetta.
Adempio al mio compito appoggiandomi a Gualtiero Marchesi nell’arduo tentativo di tenere a bada il prezzemolino Pellegrino Artusi. Innegabile è la nostalgia che mi assale mentre scartabello tra le ricette che Giuseppina Perusini Antonini è stata in grado di raccogliere tra i ricettari ottocenteschi friulani.
Ma procediamo cauti.
Per me son crostoli, per te chiacchiere
Paladina delle chiacchiere al forno, ma prigioniera dei crostoli: chi è che non cede ai ricordi davanti ai dolci di Carnevale? Per te cosa sono? Cenci o frappe?
Sappi che la tua risposta svelerà da dove vieni molto più rapidamente di qualche indagine di CSI. Il campanilismo è più rapido di ogni indagine scientifica.
Dopotutto la scientificità imporrebbe di cominciare ad indagare dall’antica Roma provando a riscaldare del grasso di maiale per le frictilia.
Poi toccherebbe fare una lunga sosta alla corte dei Savoia per interrogare, non tanto la Regina Margherita, quanto il cuoco di corte Raffaele Esposito. Da lui, narra la leggenda, nacquero le prime e vere chiacchiere in risposta alla fame della Regina.
Eppure non è una bugia dire che per me crostoli erano e crostoli saranno. Per loro giravo all’impazzata la manovella del tirapasta. Seguivo diligentemente le istruzioni materne, anche quando il piacere si trasformava in fatica. E mai avrei osato contestare i tagli lungo le strisce di impasto.
Devo pure riconoscere un misto di tristezza quando potevo spolverizzarli di zucchero a velo. Voleva dire che era finito il gioco. Tutto passava subito, perché cominciava l’abbuffata.
Con le ricette tradizionali ancorarsi a un nome, a un grammo in più o meno, è istintivo. E’ la forza del cibo. Frappe o bugie, chiacchiere o crostoli, fiocchetti o sprelle, cenci o guanti: ma che maraviglias (come direbbero i sardi)!
Chiacchiere tra tocchi finali e tradizioni
Ogni nome nasconde in sé non solo tradizioni, ma pure usi e abitudini. Aspetti che anche la più approfondita ricerca non saprebbe rendere del tutto. Meglio affidarsi al resoconto dei testimoni diretti. Dietro ai nomi si celano differenze che né io né tu possiamo conoscere del tutto.
Mai sentito parlare delle lattughe mantovane? Lo sai che sono più piccole delle gasse? Oppure sei certo di chi usi il limone: i vercellesi nelle gale o anche gli abruzzesi per le loro cioffe?
Quindi, avendo assistito alla nascita di migliaia di crostoli, con loro ti intratterrò.
Lo so che hai notato che questi crostoli/chiacchiere non hanno le bolle. Non ho voluto cedere al lievito, né ad ingredienti che non fossero citati tra quelle ricette ottocentesche raccolte dalla contessa Giuseppina Perusini Antonini in “Mangiare e Ber Friulano”, quello che viene identificato come il primo manuale di cucina tradizionale friulana. Tutte e dieci le ricette crostoli prevedevano farina, zucchero, burro, uova. Solo in un caso, a casa dei conti Asquini, era consentita l’acqua.
Il burro stavolta l’ho mantenuto morbido, non l’ho sciolto come ho suggerito per le castagnole al forno o come, invece, annotava il padre di Franscesca Romana Castellani di Aioli.
Le frappe per lui richiedevano 2 tuorli d’uovo, un cucchiaio di zucchero, mezzo chilo di farina e 30 grammi di burro fuso. “La ricetta è degli anni Settanta e ce la preparava lui quando avevamo la festa di Carnevale a scuola. Però la ricetta è molto vecchia. Penso fosse di mia nonna”. Sì, mi sto fidando solo di testimoni e prove documentali.
Al pari delle castagnole, anche nelle chiacchiere ci va dell’alcol. Tale trasgressione può avvenire a suon di grappa, vino bianco o Marsala. Nella scelta, anche in questo caso, mi sono lasciata guidare da quanto trasmesso anche a noi comuni mortali dallo chef Gualtiero Marchesi nel suo “La cucina italiana: il grande ricettario”.
Lo chef è molto preciso. Per le sue chiacchiere al forno ci vuole del Marsala Vergine. Eppure qualcosa mi dice che avrai in giro per casa del Marsala Superiore Riserva.
“Grillo, cataratto e nerello mascalese sono comunque le uve utilizzate. Di vinificazione in bianco si parla in entrambi i casi. Una volta aggiunto l’alcol etilico, in una percentuale di 3-5%, il Marsala Vergine viene fatto semplicemente invecchiare. Mentre per avere del Marsala tipo Fine o Superiore Riserva si unisce della mistella, detta anche sifone o concia, ossia del mosto di almeno 12° reso non più fermentabile”.
Quanto utile è avere un’amica e pure sommelier-cardiologo come Mara.
Stendendo le chiacchiere al forno
Non bisogna dare nulla per scontato.
La ricetta del convento delle Dimesse di Udine si dilunga assai nella descrizione della fase di “stenditura” dell’impasto.
Alla faccia della baldoria del Carnevale, loro per i crostoli suggerivano “indi si distende, poi si ripiega, si torna a ripiegare, e così per sette o nove volte”. Ma saranno stati i crostoli sottili come i cenci di Pellegrino Artusi, il quale tirava “una sfoglia della grossezza di uno scudo”?
Non è questa una questione di lana caprina. Per rendere irresistibili, al pari delle cugine fritte, le chiacchiere al forno suggerisco di stenderle fini. Sì, fino alla tacca del tirapasta che corrisponde al livello massimo di finezza.
L’incantesimo dei dolci di Carnevale sta nel loro volere il bis fino ripetere ancora ed ancora “questo è l’ultimo…No, questo è l’ultimo”.
La ricetta perfetta
400 grammi di farina tipo 00
2 uova
un goccio di essenza di vaniglia
90 grammi di zucchero semolato
40 grammi di burro
3 cucchiai di Marsala
Per decorare:
zucchero a velo
Con la farina setacciata fare una fontana.
Al centro porre le uova sgusciate, l’essenza di vaniglia e lo zucchero. Sbattere con un forchetta uova e zucchero ed amalgamarli man mano con la farina.
Aggiungere il burro a pezzettini continuando a lavorare gli ingredienti.
Unire il Marsala e come dice Pellegrino Artusi “fate con questi ingredienti una pasta piuttosto soda, lavoratela moltissimo con le mani e lasciatela un poco in riposo, infarinata e involtata in un canovaccio”. E quel moltissimo, se a mano, sono una decina di minuti circa.
Trascorsa la mezzora di riposo, riprendere l’impasto liscio ed omogeneo che si è ottenuto e dividerlo in 4 parti. Stendere ogni parte prima col mattarello e poi col tirapasta. Certo, può bastare il mattarello. Eppure per averle fini, come preferisce la nordica dei crostoli al forno (sono io, lo ammetto), meglio il tirapasta e meglio farsi aiutare affinché far le chiacchiere sia ancora quel gioco da bambini.
Sul taglio delle strisce di impasto ammetto di essere un’anarchica. I cuochi seri e le sagge massaie vogliono strisce di 12 cm di lunghezza e 3 cm di larghezza, o comunque si attengono a misure standard. Soprattutto affinano i bordi con un una rotellina “a smerli” (parola di Artusi). Se son severe, fino al midollo, vanno di taglio secco col coltello. Mentre l’anarchica peste che è in me, lascia fare al caso per due bordi su quattro e taglia severa gli altri due bordi col coltello. Immancabile, comunque, l’incisione al centro.
Fin qui nulla di diverso dalle cugine chiacchiere fritte.
Preriscaldare il forno a 190°C. Sì, sulla cottura mi allontano da Gualtiero Marchesi. Nell’edizione a mia disposizione parla di 200°C e 20 minuti di cottura. Troppo per i miei crostoli. Ad occhio si coglie subito quanto conti un minuto. Qui vedi i vari esperimenti fatti.
Quando il forno raggiunge i 190°C, porre sulla teglia ricoperta con carta forno le chiacchiere o crostoli o cenci o frappe (il Carnevale vive di dialetto). Distanziale solo qualche centimetro.
Cuocerle a 190°C per 7-8 minuti. Solo una volta sono giunta a 10 minuti, ma mi pareva esagerato il colore e il profumo, pur invitante, che inebriava la casa. Dopotutto è lo stesso chef Marchesi a suggerire di cuocerle “sin quando saranno dorate”.
Toglierle dal forno. Farle raffreddare un attimo.
Zucchero a velo come se piovesse e via all’abbuffata.
“Questo è l’ultimo…No, questo è l’ultimo crostolo. No ancora un cencio. Ma dai, ancora una frappa”.